Lettera ad un condannato attore
Cari attori,
Care attrici,
In questi tempi di felice apertura dei teatri e di libero accesso alle sale, durante i quali se non lavoro è solo colpa del mio talento latente e delle mie mancanti conoscenze, mi assale malinconia.
Fugge il cor’ ai dì gloriosi,
a protestar’ quel che l’volgo Sistema appella.
Poco importava di qual fosse personal parcella,
se vien meno la pecunia, tutti se ribellan
finché il nemico-stato un decreto non debella.
Adesso invece mi manca anche la forza per sostenere versi e rime baciate.
Galeotto fu il COVID che ci fece scendere nelle piazze, uniti sotto un’unica bandiera: “Lavoratori dello spettacolo”. Ti voltavi e vedevi gli “attoroni”, quelli a cui basta il solo nome per riempire un teatro, quei nomi che ogni teatro stabile o Tric che voglia ritenersi tale deve avere in cartellone, guidare la rivolta e al loro fianco, performer, ragazzi usciti dalle accademie, membri di associazioni che si occupano di inclusione e di cura attraverso il teatro, tecnici, artisti di strada, circensi...insomma, c’erano tutti quelli che si sentivano parte di questa così detta “categoria”.
E ora? Dove siete finiti compagni? Che cosa vi è successo? Non dovevamo cambiare le cose insieme? Uniti…
Perché io volevo farlo davvero, ma poi le cose hanno iniziato a ripartire, e gli “attoroni” che avevano sempre lavorato hanno ripreso a lavorare, pagati da quel sistema che andava cambiato, gli altri a litigarsi le briciole lasciate sul piatto e quelle realtà che invece il sistema ha sempre ignorato sono tornate a fare il loro lavoro a testa bassa, in silenzio, sostenute, nel migliore dei casi, dallo spirito santo.
Eppure era così bello lottare insieme, sottoscrivere petizioni, mettere l’adesivo #artiswork sulla foto profilo di Facebook, partecipare a riunioni zoom, che ancora non sapeva utilizzare nessuno, e seguire dibattiti accorati, dialoghi fra ideali e racconti di grandi proteste del passato.
Tutto questo però sembra non essere servito a niente. Ora è tutto come prima.
Perché?
C’è stato un periodo in cui siamo stati definiti “inutili”. Abbiamo capito quale è la nostra utilità? Perché secondo me, ora come ora, hanno ragione loro. Che cosa siamo se non un’alternativa elitaria a Netflix? Siamo intrattenimento, con un costo maggiore che non è giustificato dalla qualità del prodotto, perché “The tragedy of Macbeth” di Joel Coen mi ha raccontato Macbeth molto meglio delle messe in scena viste a teatro. Perché invece di offenderci e dire “Ma come inutili! Noi siamo la voce della Cultura!”, invece di sbattere i piedi pretendendo di essere riconosciuti e risarciti non ci siamo riuniti e chiesti: “Quale è il nostro posto in questa società? Che cosa diamo noi per chiedere in cambio di essere riconosciuti? Perché se di noi non frega nulla a nessuno, in primis al ministero della cultura, e in piazza a protestare ci sono solo gli addetti ai lavori, un motivo ci sarà… Meditiamo!”
Se il Teatro Pubblico non vuole più essere considerato come il calcetto o la pizzata con gli amici, deve smetterla di vendere un prodotto e iniziare invece ad offrire un servizio, che si prenda cura veramente della relazione diretta fra le persone, affiancando il sistema scolastico e quello sanitario.
Solo a quel punto si penserà al teatro non come all’aperitivo, ma come alla scuola, e non una “scuola per adulti” perché, se i teatri sono svuotati di giovani, è perché, nella maggior parte dei casi, sul palcoscenico si lavora per produrre forme, che non possono nemmeno lontanamente competere con quelle che offre Netflix, Amazon o semplicemente Instagram; mentre la relazione, il riconoscersi nello sguardo dell’altro, sono insostituibili dalla tecnologia e su di essi si fonda il teatro. Per questo c’è bisogno di un servizio che metta al centro la cura della relazione e della presenza; il “teatro dei biglietti” può essere benissimo portato avanti da enti privati, ci sono attori o compagnie che con solo il loro nome riempiono teatri da duemila posti ed è giusto che questi luoghi permettano di ammirare il talento di questi artisti, ma è necessario che gli attori, in quanto esperti in materia, rivolgano le loro capacità e conoscenze all’educazione alla relazione, ritornando a svolgere il ruolo sociale e didattico che con tanta rabbia chiedono che gli sia riconosciuto.
Se ho scelto di fare una scuola per attori è proprio perché voglio diventare uno di quelli che riempiono i teatri da duemila posti e continuerò a studiare per questo, ma senza rinunciare in nessun modo al ruolo sociale di questa professione, perché se il Teatro Pubblico si trasformasse nel servizio di cui necessita la società, il primo a giovarne sarebbe lo stesso “teatro dei biglietti”, e i due sistemi non solo coesisterebbero, ma si supporterebbero a vicenda.
Ma non date troppo peso alle mie parole, sono solo un romantico che spera un giorno di fare qualcosa di utile con questo mestiere. Immagino, sogno, perché in questa torrida estate, mentre aspetto che si carichi su Wetransfer il self-tape richiesto dal casting per la pubblicità di DAZN, di tempo per sognare ne ho tanto.
Il vostro compagno/attore
PIETRO MACCABEI