Da Valenza
C'è un incubo che non riesco a scacciare. Mi trovavo in un teatro dov'erano in corso delle prove. Una mattutina: il giorno si infilava come una carezza dall'uscita sul fondale. Così vicina a me, oltre i venti passi che misurava il palco, c'era la porta che conduceva al retroscena; vi scorgevo dalla mia prospettiva, seduto in platea, rovi e arbusti che verdeggiavano. Fra questi svettavano colonne robuste. Per raggiungere quell'apertura dovevo infilarmi in quel gruppo di tumultuanti in scena, di cui non ho memorizzato la composizione. Preparavano un Classico. Io appuntavo note; a tratti distinguevo un dialogo borghese; gli uomini indossavano abiti lunghi, color pastello, simili a pepli, proprio come le donne. Per ammirare quella natura oltre la scena mi sono incamminato per la scaletta di proscenio, tremante come un interrogato – solo –. Era consentito uscire da quella grande sala Settecentesca, che cadeva a precipizio sopra di me, soltanto attraversando il palco. L’ho percorso indenne; sono giunto così all'aria aperta. Con meraviglia ho scoperto che dal retroscena si estendeva, a perdita d'occhio, una selva, decadente e preromantica. C’era un corso d’acqua che divideva due rive: il Monferrato dalla mia parte e di là la suggestione di un’altra regione: la Lombardia forse. D'improvviso il fiume che prima correva lì come un rigagnolo si gonfia: non irrobustito da una piena, ma sollevato da una forza magnetica, come se la massa della Luna, che intanto era apparsa, lo stia tirando su, a sé. Sono tornato allora nel teatro. Ho ripercorso il mio tratto per la sala buia. L'oscurità aveva qualcosa di sinistro: dai palchetti avrebbe potuto anche apparire un cecchino. Ho percorso il foyer - deserto - che odorava come una spelonca stregata e giunto ad una sala isolata, un dormitorio, mentre tutta quella compagnia dormiva, mi sono appoggiato su un cuscino e ho preso sonno.
FABRIZIO WALTER ARTERO