Peter Brook
Le “Bouffes du nord” è un teatro di Parigi, è in mezzo ad un quartiere dove abitano indiani e pachistani, qualche marocchino, francesi zero. Fuori dal teatro niente insegne al neon, solo una locandina col programma della serata, di fianco all’ingresso un baretto dove gli attori bevono e chiacchierano fino a pochi minuti prima che cominci lo spettacolo… Entri e c’è un corridoio con un bancone per la cassa e poi si passa nella sala teatrale: uno spazio circolare con due gallerie. L’impressione è quella di un rudere perché questo teatro diversi anni fa è andato a fuoco. Però non è che sia stato rifatto nuovo, no, lo hanno tenuto com’era dopo l’incendio, lo hanno solo ripulito a fondo, ma niente lavori di ristrutturazione pesanti. Sui muri sembra di vedere ancora i segni delle fiamme, ed entrando hai la sensazione che sia rimasto anche un vago odore di fuliggine. Le “Bouffes du nord” raccontata così sembra la sede di una compagnia di periferia, uno di quei teatrini scalcagnati che stanno in piedi per la passione di qualche filodrammatica, e invece è il teatro del più grande regista vivente: Peter Brook. Peter Brook è inglese, adesso è intorno agli ottant’anni, è stato direttore della Royal Shakespeare Company, ha messo in scena un bel po’ di Romei, Giuliette e Almeti, a Londra. Poi, nel 1970, se n’è scappato a Parigi, e in questo teatro di periferia ha fatto spettacoli memorabili come il “Mahabharata”. Il poema sacro indiano molto più lungo della Bibbia. Il “Mahabharata” durava otto ore, ma praticamente la scenografia era il teatro de le “Bouffes du nord” nudo e crudo. Semplicità, essenzialità, verità, sono le parole d’ordine del suo teatro. Peter Brook è uno che pensa che la mancanza di scenografia è un requisito necessario per l’immaginazione. Per questo la sua “Bouffes du Nord” si presenta sempre così com’è: come una bellissima signora che non ha bisogno di vestiti costosi, non ha bisogno di abitare nei quartieri alti: la sua eleganza è nei segni della memoria che porta sul viso, sul corpo. Alla “Bouffes du nord” è impossibile oscurare la sala: lo spazio scenico è lì in mezzo e il pubblico tutto intorno, quindi gli spettatori vedono gli attori, ma anche gli attori possono vedere il pubblico: è un teatro in cui ci si guarda in faccia.
-A me il teatro piace quando gli attori si guardano negli occhi.- Dice Peter Brook. E se ci pensi non capita spesso di vedere attori che si guardano negli occhi. Spesso le platee dei teatri sono buchi neri, bui e spaventosi: impossibile per gli attori vedere il pubblico. Magari scenografie sontuose sul palco ma niente scambio tra attori e pubblico. Alla “Bouffes du nord” invece è il contrario, niente scenografie, niente di superfluo, ma gente che si guarda negli occhi. Questo è il teatro per Peter Brook.
Ho scritto questo pezzo una quindicina d'anni fa per La Stampa, è il mio ricordo per uno dei maestri da cui ho imparato di più.
GABRIELE VACIS