Se.Giova che diffderenza fa?

A Settimo Torinese collaboriamo con l’associazione “Se.Giova”. Ha sede nel quartiere Borgo Nuovo. Il Borgo nuovo non è proprio periferia, ma è un quartiere ancora oggi popolare. Anche se ci sono le scuole superiori, l’originaria separazione dal centro si fa ancora sentire. Responsabile è forse la ferrovia, che lo separa dalla Settimo vecchia, come la trachea divide i polmoni. A “Se.Giova” ci sono dei giovani che si occupano di integrazione di altri giovani. Si fonda su una sinergia fra ragazzi, servizi sociali e psicologi, e mette a disposizione l’attività di giovani per dei giovani. Per loro, noi di PEM, abbiamo messo a punto letture e interventi. Grazie a loro, abbiamo accolto dei ragazzi nel nostro laboratorio “Sguardi Aperti”, che fa inclusione e formazione tramite pratiche teatrali.

C’è un paradosso perciò che non mi torna. Per quale motivo l’integrazione è ancora un fatto di periferia? Con “periferia” si vorrebbe chiamare qui una sottocategoria sociale più vasta, cioè una fetta molto ampia che include gli emarginati, gli attivisti di professione, i radicali e gli studenti politicizzati. Da quando sono andato al liceo, in città, me la sono sempre immaginata come mi immaginavo i compagni che facevano politica. Ho sempre avuto la sensazione che l’integrazione, a cui è sotteso un progresso trasversale fosse appannaggio degli “alternativi” piuttosto che degli “integrati”. In una ipotetica separazione che non esclude casi intermedi - di cui credo di avere fatto parte - da un lato ci sono quei giovani che ancora oggi ascoltano rock demodé, si fumano i drum e indossano le Globe, e dall’altra i figli di papà con le Air Force, quelli per cui non c’è altro che la Trap. E’ solo un comodo immaginario: crescendo gli “alternativi” sono diventati sempre di più come “noi”. Gli “integrati” non hanno i problemi degli “alternativi”, senonché hanno la responsabilità di mantenere lo status quo. Allora per quale motivo, gli “integrati“, - il “centro” - dovrebbe delegare la responsabilità del progresso agli “alternativi”, la “periferia”?

Di recente qualcuno mi ha ricordato che le compagnie teatrali, per motivi di necessità, si sono spesso dovute comportare come delle famiglie. Mi viene in mente la famiglia di saltimbanchi de Il Settimo sigillo di Bergman: troppi sono gli interessi e le implicazioni con l’arte, per poter scegliere una vita borghese, dove si preserva la separazione casa-ufficio.Le compagnie di teatro, le associazioni politiche non vivono più da “figli dei fiori”. Molti li vedono comunque come io guardavo gli alternativi. Anzi, nelle feste di paese la cittadinanza si riunisce molto più profondamente che durante le elezioni. Sempre più spesso, lo spirito di paese è animato da “itineranti” di professione, poiché i paesi non si possono più permettere di promuovere una politica culturale fatta in casa. E’ compito dunque delle periferie - da dove provengono, i saltimbanchi, i radicali - tirare un ponte con il centro?


FABRIZIO WALTER ARTERO