Ad Anversa. Il teatro di Jan Fabre
Ad Anversa, in una via ricurva di un quartiere lontano dal centro, si apre un portone con scritto Troubleyn – dal fiammingo “rimanere fedeli”. Varcandolo, un grigio corridoio sfocia in un foyer ben illuminato: siamo in un teatro, uno spazio che nasconde mille piani di cucine, camerini e uffici. Ci sono opere d’arte incastonate ovunque, è necessario avere gli occhi sempre vigili per scorgerle tutte.
L'aria familiare e accogliente appare in contrasto con la vertigine del sentire che, in questo luogo, tutto è concesso. Qualsiasi cosa.
Qui, Jan Fabre e la sua compagnia passano giornate e nottate a improvvisare partendo da quadri, schizzi o musiche per dar vita a spettacoli del calibro di Mount Olympus, 24 ore di pura, precisa follia.
In mezzo ad un gruppo di performer di origini e competenze completamente differenti, studiamo il suo teatro per due settimane: un teatro fisico ed estetico.
Si lavora con il corpo cinque ore consecutive in cerca dei limiti della stanchezza, per poi andare oltre: solo superato questo passaggio può avvenire la creazione, secondo loro. La ripetizione, portata allo sfinimento, è uno dei metodi prediletti. Si ripetono ogni giorno gli stessi esercizi, mirati a ricercare impulsi estremi, animaleschi: non ci sono vie di mezzo, nessun colore pastello.
Come primo esercizio, intorno alle 13, ci si sveglia da gatti, pulendosi e stiracchiandosi, esplorando la stanza e le relazioni con gli altri gatti che popolano il palco, per poi curare una metamorfosi che trasforma in tigri: a partire dal verso, attraverso la postura, lo sguardo, fino a sentire la differenza di temperatura del sangue che scorre nel corpo. Altre metamorfosi in altri animali lasciano poi spazio a caratteri: un esercizio tra tanti, “the old man”, prevede di attraversare, da persona di novantanove anni, circa 15 metri di palco in 20 minuti.
Al Troubleyn si muore, si trema, si aggredisce e si seduce, ma soprattutto si suda: un fattore ritenuto essenziale per la riuscita degli esercizi.
La voce è fondamentale, ma non la parola. La seconda parte della giornata è dedicata all’improvvisazione, dove ognuno si esprime con la propria lingua madre, o quella ritenuta più comoda, e nonostante questo le storie create sono chiare, la comunicazione avviene.
Nulla si crea senza un investimento totale delle proprie energie. Il lavoro consiste nella ricerca di un’unità del corpo e della mente in cui i piedi pensano, e il cervello danza. Ci si lascia trasportare da ciò che accade, senza grandi ragionamenti, e contemporaneamente si è consapevoli di sé stessi e degli altri con assoluta precisione.
Varco per l’ultima volta quel portone grigio e ho la sensazione di aver giocato più in due settimane che in tutta la mia infanzia.
La fantasia è un muscolo da allenare ogni giorno.
ANNA DEMICHELIS