Al festival dei Due Mondi

Difficile decidere, ma a volte anch’io riesco a fare ordine nella mia mente, mi organizzo e allora capita che tra un’incertezza e l’altra, tra una ricerca di case a Torino e un’altra, mi decido a prendere un treno Verona-Roma e un altro Roma-Terni direzione Spoleto: vuoi perché una tua amica ha la casa in Umbria, vuoi perché uno tra i più giovani ed affermati registi italiani e vicedirettore della tua scuola, mette in scena in prima nazionale uno dei capisaldi della drammaturgia. Arrivo a Spoleto, mi ci addentro, Spoleto è una conca immersa nella cultura, una città accogliente: vicoli, monumenti, chiese e piazze, botteghe di prodotti tipici in viottoli l’un l’altro collegati. Trovo l’atmosfera in un calmo ed estivo saliscendi, atmosfera perfetta per i turisti. Non è un caso che da 65 edizioni il Festival dei Due Mondi si svolga nella città dei teatri: dal Teatro Romano, Teatro Caio Melisso, Teatro Nuovo per finire con il Piccolo Teatrino delle 6, intitolato nel 2015 a Luca Ronconi, per arrivare a spazi da tempo inutilizzati, oggi adibiti a sale teatrali, come l’ex chiesa di San Simone o quella di San Nicolò. È proprio qui, e in queste calde sere d’estate, che ho la fortuna di assistere a tre grandi produzioni che mi confermano quanto il senso di collettività, il desiderio di ritrovarsi ed emozionarsi, -artista e spettatore-, siano importanti. Il primo spettacolo: Il Gabbiano di Cechov, per la regia di Leonardo Lidi. Un testo tra i più grandi capolavori che siano mai stati scritti, che parla di noi, un testo crudo e attuale, tocca tutte le sfaccettature della natura umana, a distanza di oltre centovent’anni continua a mettere in luce le debolezze del nostro animo: la continua ricerca di essere amati e accettati senza necessaria corresponsione. Mettere in scena un testo così complesso è scelta coraggiosa, ma la bellezza dello spettacolo è questa: spingere sull’acceleratore, ammirare un cast d’eccezione capace di osare, di avere il potere di commuovere, in un contesto scenografico scarno, dove i personaggi sono seduti sullo sfondo e la scena prende forma su una panchina in primo piano. È proprio lì che i dialoghi si alternano e, mentre i personaggi combattono e sfogano tutte le loro frustrazioni, inscenano emozioni, mettono in mostra una vita che, pur di difficile comprensione per occhi esterni, riesce a commuovere, a creare empatia. Cechov parla di noi: i suoi personaggi siamo noi, la nostra stessa natura prende parte a un immutabile e perverso meccanismo di stasi.

Tutt’altra cosa gli altri due spettacoli cui ho assistito. Da un lato un autentico one man show, Antonio Rezza, che con il suo modo surrealista di fare spettacolo riesce a catapultarci in un mondo fatto di porte, tante porte che apre e chiude con sapienza, porte che lasciano passare storie di personaggi da lui stesso creati, storie che ci rappresentano, con un linguaggio e una dialettica di perfetta comicità, in grado di sorprendere, con un ritmo incalzante e accelerato, un timbro vocale che cambia di situazione in situazione: lo spettatore si trova spiazzato, divertito e intenerito. Antonio Rezza che, con Hybris mette in luce ancora una volta la sua formidabile e geniale capacità di fare teatro, è sorretto da una presenza scenica che, nel suo genere, lo rende unico.

Dall’altro lato troviamo un testo autobiografico di Édouard Louis, “History of violence”, per la regia di Thomas Ostermeier, un testo che affronta complesse tematiche sociali: razzismo, emigrazione, omosessualità, violenza sessuale; il tutto in una struttura drammaturgica che annette recitazione teatrale e cinematografica, volta a proiettare su uno schermo i momenti più drammatici dei personaggi coinvolti. La scenografia è, anche qui, come ne Il Gabbiano, molto semplice con due tavole e poche sedie che riportano a situazioni diverse, poi un batterista che scandisce i momenti di interazione dei personaggi. Mentre la prima parte, anche per la complessità del testo, fatica a prendere il giusto slancio, la seconda arriva come un pugno nello stomaco. Sarà merito di Louis, probabilmente di Ostermeier, forse degli attori? Lo spettacolo diventa inquietante, disturbante e di un realismo capace di infastidire. Tutto è creato per suscitare impatto emotivo: ed è questo a rendere autentico ciò che è rappresentato. Fare teatro a questi livelli è atto d’amore, è bello uscire da teatro con mille interrogativi, mille emozioni da condividere.

A me è capitato a Spoleto.

Viva il Teatro e Viva Spoleto!

ALESSANDRO AMBROSI