Il canto del regista ovvero Guida all'attore

IL CANTO DEL REGISTA

una poesia con una introduzione

C’è un monologo molto interessante nell’Amleto di Shakespeare — per la precisione la parte iniziale dell’atto III, scena 2 — in cui il principe Amleto, assunti degli attori itineranti per allestire uno spettacolo a palazzo, li istruisce sull’arte della recitazione. È una scena molto strana: Amleto, colto dilettante, ammonisce degli attori professionisti proprio riguardo al loro campo. Ci mette sue personali considerazioni estetiche, li avverte sui pericoli del mestierantismo, dice loro che l’opinione dello spettatore colto (ruolo nel quale egli evidentemente si identifica) è assai superiore a quella della volgare, stolta marmaglia , eccetera eccetera. Ho sempre provato fastidio per questa tirata — non amo particolarmente il teatro che parla di se stesso, in cui lo spettatore occasionale si trova improvvisamente costretto a sorbire dissertazioni di prassi teatrale ed estetica, chiaramente destinate agli addetti ai lavori — e così l’ho semplicemente tralasciato nelle mie letture successive di quell’opera immensa che è l’Amleto, soffermandomi su altri passaggi. Ho sempre pensato che fosse un inserto autoriale, un modo per Shakespeare di togliere un sassolino dalla sua esimia scarpa e lanciar frecciatine ad altri professionisti teatrali; un infelice passaggio da relegare insieme alle altre polemiche da attori presenti nello spettacolo: insomma, non qualcosa che all’epoca m’interessasse.

Passarono gli anni: durante i miei studi all’Accademia dei Filodrammatici, nell’ambito di un seminario con il maestro Cesar Brie, egli ci chiese di analizzare proprio questo monologo, con l’obiettivo di trarne una nostra libera interpretazione; per me, tutto preso dagli studî di teatro, reduce di conferenze su Luca Ronconi, immerso nell’ambiente teatrale milanese, ho potuto guardare il monologo sotto una luce nuova, e mettere da parte il mio insofferente giudizio adolescenziale. I consigli di Amleto sono validi tuttora per gli attori; nelle sue prescrizioni estetiche c’è molta saggezza — un tipo di saggezza che vale per molte arti oltre a quella della recitazione.

Eppure il mio io più giovane continuava a dirmi «c’è qualcosa di inquietante, di terribile qui»; non potevo fare a meno di notare una sorta di superiorità, di totalità in quelle parole, e come esse si prestassero a un genere di regia particolarmente autoritario. Quel tipo di regia che non ha rispetto per l’attore, e lo usa come si userebbe un elemento di scenografia o una musica di sottofondo.

Tutti gli attori conoscono quel tipo di regia, e il tipo di registi che la praticano: persone frustrate che manipolano i propri attori, facendo loro violenza psicologica con la scusa che tutta la sofferenza che stanno attraversando verrà ripagata dalla Pura Arte risultante. Individui tristi e meschini; incapaci, prima ancora che come registi, come esseri umani. Ebbene, io ho evocato un tale personaggio, gli ho messo in bocca le parole del principe Amleto, e ho osservato e trascritto come la sua bocca tramutava il monologo nella poesia qui presentata.

Alla fine questo pezzo non ha trovato impiego nel seminario con Cesar Brie, ma ha trovato un suo posto nella mia testa da allora.

Ve lo affido, cari lettori. E se per caso siete attori, provate a leggerlo ad alta voce: forse riconoscerete qualcuno di vostra conoscenza in queste parole.

IL CANTO DEL REGISTA

ovvero

GUIDA ALL’ATTORE


di S.A.R. Amleto, Principe di Danimarca


Ti prego, recita il pezzo come me,

proprio come ho fatto io:

non come gli altri, non fare

il gigione, non disgustarci con la tua emozione — dilla veloce

e vergognati di quello che dici.

Non fare i gesti con le mani, sembreresti un oratore, non darci il peso della tua emozione:

ma vestila in un abito brillante

e daccela ad un prezzo di favore;

e piangi e singhiozza al ritmo dell’orchestra, converti in bel canto la tempesta.

Come osano come osano quelle merde farti vedere quanto sono bravi,

e farsi ammirare dalla gente,

e colpirla con la sua emozione?

Ma non facciamoci irretire dalla plebe,

impariamo a fare quello che non piace —

e uccideremo spoglieremo daremo in pasto ai cani chi osa violentar la nostra Arte.

Non pensare a quel che fai, sarò io

a dirti cosa come quando

pensare, sarò il tuo Cesare e il tuo Dio, sei la mia ampolla e ti saprò riempire col liquido che penso sia più giusto — saprò insegnarti io il kitsch e il gusto.

E imparerai ben presto a disprezzare gli attori esagerati e disgustosi

che riempiono i teatri di ignoranti ed osano far ridere la gente

e fare quel che già ti aspetteresti — e saprai andar controcorrente e far teatro

impegnato irriverente che parla delle Cose Vere e imparerai a umiliarti e mostrerai il sedere

per denunciare atrocità lontane —

e forse la platea lo chiamerà ciarpame

ma Chi Se Ne Intende capirà,

saprà comprendere la mia emozione.

E dite ai vostri comici, schifosi,

di stare al loro posto e non fiatare

e non essere svegli e intelligenti

e non mostrare i denti e non permettersi

di rovinare il mio perfetto Piano di Regia con una qualche loro coglionata

proprio quando la mia Trama prende il via:

voi vili bassi orribili bastardi

vorreste farvi scena e divertirvi,

ma presto imparerete a soffrir bene: sarete gli schiavi dell’Azione,

saprete castrarvi quando sia opportuno, e non ci farete vomitare

con la vostra ridicola emozione.

MASSIMO BERNARDO DOLCI