Un approccio sistemico
Casa del teatro ragazzi e giovani, Sala Grande. 13 Gennaio: è un giorno speciale sia per una bimba che compie gli anni e sceglie di festeggiarli in teatro con i suoi amici, sia per la Compagnia Fenice Teatri che è al debutto con Alla ricerca di un lieto fine. La storia è quella de Il topo e la montagna, una favola scritta da Antonio Gramsci per Delio e Giuliano, i suoi due figli. Era il 1931.
Quali sono i passi da fare per compiere un cambiamento?
Mi rendo conto che la domanda sia utopica; che utopico sia pensare a dei “passi per il cambiamento” già dati. Come se qualcuno potesse averli sperimentati e sistematizzati, dandoci poi un foglio con su scritti tutti gli step da seguire: come si farebbe per un esperimento di chimica organica o per realizzare un algoritmo informatico.
Il teatro non ha questo elenco, non è una scienza dura, o almeno non totalmente.
Pensiamo al ritmo, a quanto sia necessario per “tenere vivo lo spettacolo”, per permetterci di non annoiarci ma di essere dentro quella storia, insieme a quei corpi così vicini a noi.
Ecco: così vicini. Bisogna, insieme al ritmo, pensare lo spazio. Considerare la sua grandezza e, in relazione a questa, tener conto dei corpi degli attori e delle attrici insieme a quelli degli spettatori, degli oggetti, ... pensare la “giusta” distanza.
Il ritmo, lo spazio, non si possono misurare con calcolatrice alla mano, tentando poi di farne un elenco con i risultati ottenuti; ma si possono pensare attraverso un approccio sistemico. Di solito questa parola, sistemico, la si sente usare in ambito puramente scientifico ma, conserva un significato che credo possa aiutare anche chi prova a fare teatro.
Assumere un approccio sistemico vuol dire “pensare al sistema”: pensare grande e lontano. Avere questo sguardo ci permetterebbe di essere presenti in quel preciso spazio e in quel preciso tempo e, insieme, di guardare al futuro, di costruirlo responsabilmente. Usando né il micro- né il tele- scopio ma il macroscopio: «Ci serve uno strumento, prezioso come lo furono il microscopio e il telescopio per la conoscenza scientifica dell’universo, ma destinato, questa volta, a tutti coloro che tentano di capire il senso ed il posto della loro attività: dai sommi responsabili della politica, della scienza e dell’industria, ad ognuno di noi. Chiamerò questo attrezzo macroscopio» scriveva Joel de Rosnay nel 1978. Questo strumento non lo si può comprare da nessuna parte ma ce lo si può creare, o meglio, ideare. Potrebbe aiutarci a guardare (e desiderare) il cambiamento; a individuare cosa, in tutta questa complessità, sia necessario e cosa non lo sia. Ci aiuterebbe a saper scegliere e a togliere più che aggiungere.
Alla ricerca di un lieto fine è alla ricerca, appunto, di quei “passi per il cambiamento”: amicizia, guerra, Terra, diversità ... le parole, i passi, quelli ci sono già. Così come “il cambiamento”, che è dentro queste parole. Ciò che manca è il “per”.
Come lo si trova? Provando a usare il macroscopio? Così da togliere, lasciar andare ciò che non serve più e magari, in quel quasi vuoto, ritrovare il “per” perduto?
Sono utopiche anche queste parole, me ne rendo conto. Ce ne sono altre però che danno forza e mi fan sperare: «Utopia non è il sogno. È quello che ci manca nel mondo» scrive Édouard Glissant. Se non è sogno allora perché abbiamo ancora paura?
La festeggiata è andata via insieme ai suoi amici. Nella Sala Grande qualcuno starà ripulendo il palco. Rimaniamo noi, l'Osservatorio dei ragazzi, nel foyer, a provare a porci domande.
Qualche sera più tardi, prima di chiudere gli occhi per trovare il sonno, ho immaginato Delio e Giuliano, la festeggiata, i suoi amici e altri bambini e bambine (erano tantissimi), camminare insieme con il macroscopio tra le mani. Una sorta di "Quarto stato" di Pellizza da Volpedo, solo un po' più scomposto e pieno di colori.
Sogno o utopia?
In ogni caso, credo sia meglio provare a seguirli.
MARIA TUCCI